Passando dalla via del Teatro Romano, dal marciapiede prospiciente l’area del teatro, viene normale mandare lo sguardo verso quelle vecchie pietre. Ecco lì i nostri antichi tergestini colonizzati romani seduti sugli spalti mentre attori recitano forse l’Aulularia di Plauto o qualcosa di Terenzio nella piccola area centrale destinata a palcoscenico.
Giusto far andare la fantasia, ma questa volta quanto lontana dalla realtà.
Non è facile ricostruire nella propria testa ciò che veramente fu il nostro Teatro Romano dopo quasi 2000 anni, il saccheggio delle pietre utilizzate per fare case, la sepoltura sotto tanti metri di terra, detriti e indifferenza fino poi alla sua difficile “riesumazione” a metà degli anni ‘30.
La realtà virtuale assieme alla ricerca archeologica ci viene però in aiuto presentandoci ciò che veramente fu il teatro.
L’occasione è stata fornita dalla tesi di laurea di una studentessa, Lisa Miniussi, che si è avvalsa delle tecnologie messe a punto dal (caro amico) ing. Piero Miceu, titolare della società Arsenal.
Nel breve video che si basa sulla realtà virtuale si vede l’imponenza di un teatro con gradinate divise in zone e diversamente rifinite a seconda del tipo di spettatori (nulla abbiamo inventato noi con i posti dei teatri divisi in settori e relativi prezzi) , un gradino di lastre in pietra di Aurisina davanti alla scena riservato alle persone importanti, gallerie di comunicazione per gli spettatori, statue in abbondanza come è nella tradizione romana di cui alcuni resti oggi sono collocati al Museo Lapidario (non orto lapidario, ma il lapidario tergestino sito nei sotterranei del bastione Lallio del Castello).
I materiali: legno, pietra di Aurisina, mattoni, tela per protezione da sole e pioggia sopra il teatro.
Un’opera di alta ingegneria cui i romani (quelli … antichi) ci hanno abituato.
Lo studio più approfondito sul Teatro Romano (ben 500 pagine) è stato condotto dalla professoessa Monica Verzar Bass, agli inizi anni ‘90, il cui libro oggi si può consultare presso i Civici Musei Storia e Arte (Palazzo Gopcevich), ma è giusto ricordare anche il lavoro – “Trieste, una passeggiata archeologica” – di un’altra donna, prematuramente scomparsa, la prof. Patrizia Gabrielli Piani, cognata di un mio professore all’Università e che ha insegnato anche al Petrarca.
Un sottile filo lungo 2000 anni lega Petronio, procuratore dell’imperatore Traiano, che volle un teatro per i suoi concittadini a Ireneo della Croce che nel 1600 fa cenno ai resti di un teatro romano (nel 1600 non ancora del tutto sepolto), all’architetto Pietro Nobile che ai primi ‘800 ipotizza proprio in quel sito un teatro romano (del resto la zona era stata sempre chiamata “rena vecia” ossia arena vecchia), al sopraintendente Malajoli che a metà anni ‘30 riporta alla luce i resti del teatro disseppellendolo da decine di metri di detriti sui quali erano sorte delle modestissime casupole. E poi con chi in tempi più recenti– come le due professoresse citate, ma a cui aggiungo il prof. Silvio Rutteri – ha dedicato energie per la comprensione dell’ importanza del sito.
Nel pensare al nostro Teatro Romano non è difficile andare con la mente al grande Colosseo o alla vicina Arena di Pola o a quella di Verona e concludere che noi eravamo semplicemente molto più piccoli.
Conclusione però del tutto errata perché una cosa sono gli anfiteatri ed altro i teatri. Quelli or ora citati sono anfiteatri, hanno forma circolare, sono destinati a spettacoli con gladiatori, sono di dimensioni particolarmente grandi.
Il teatro ha invece forma semicircolare con uno spazio rettangolare per la rappresentazione ed è destinato a commedie, danze, musica. Insomma … teatro.
Poco o nulla è cambiato da quel tempo nelle preferenze delle masse. Molti ieri negli enormi anfiteatri per spettacoli di gladiatori, molti oggi nei grandi stadi.
Ieri tanto più piccoli i teatri per l’arte così come ora.
Vero, ma con una precisazione. Il teatro romano di Trieste poteva contenere secondo alcuni 4000 persone e secondo altri 6000 (diversità di stime che forse si riferiscono semplicemente a epoche diverse).
Cifre comunque enormi se si pensa che la popolazione di quei tempi non superava le 12 mila anime.
Per costruire il Teatro si dovette andare fuori le mura cittadine non potendosi trovare nella angusta zona a scendere dal colle di San Giusto verso quella che ora è Cavana, uno spazio così vasto da dedicare a quest’opera che solo in epoche successive, con lo spostamento delle mura verso Riborgo, fu dentro la città.
Oggi è puro centro con tutti i suoi grandi vantaggi di visibilità, ma anche di sito soffocato da alte costruzioni.
Molto si batté senza successo Silvio Rutteri contro il permesso di costruire il palazzo dell’Inail. Esso infatti va a interrompere uno scenario che avrebbe potuto comprendere il teatro romano, l’antico e storico edificio delle prigioni a sinistra della Chiesa, la chiesa di Santa Maria Maggiore, per terminare con la chiesetta di San Silvestro.
Il Teatro Romano risulta invece sacrificato tra il grattacielo rosso di piazza Riborgo, il palazzo dell’Inail e sul davanti la massiccia e severa costruzione della Questura.
Che splendore poteva essere all’epoca il teatro che dava sul mare. L’occhio nostro deve sforzarsi di vederlo come era allora, fuori dalle mura romane, senza case attorno e con la riva del mare là dove oggi sorge la questura perchè proprio lì arrivava. Una sera d’estate, mille fiaccole accese per sostituire il sole che, ormai prossimo all’orizzonte, sta andando sotto le onde.
Quali colori e il profumo del mare e il piacere della rappresentazione così ricca di effetti speciali.
Ed anche occasione per dissetarsi e bagnarsi nelle giornate di calura estiva e forse per qualche rifornimento d’acqua.
Uno dei tre acquedotti costruiti dai romani, quello proveniente dal Capofonte (San Giovanni) attraverso l’Acquedotto (viale XX Settembre) portava l’acqua proprio al Teatro.
Costruire un acquedotto solo per un teatro.
La grandezza degli antichi romani dove sta se non nella loro follia?